TTIP Agricoltura

Il commercio internazionale non gira più

Il sistema commerciale globalizzato è malato. Siamo lontani dalle percentuali di crescita a due cifre degli anni Novanta, ma il motore degli scambi è in Asia (+4,2% nel 2014), al secondo posto ci sono gli Usa (+2,8%), mentre l’Europa produce poco, consuma meno e commercia ancor meno: le esportazioni UE crescono appena dell’1,2%, mentre le importazioni si fissano all’1,9%. Quel che ancora gira è monopolizzato dalle grandi filiere globali, all’interno delle quali gira oltre l’80% del commercio internazionale. L’Italia, in ambito europeo, è tra i Paesi più in difficoltà. Dal punto di vista commerciale, come Italia nel 2013 siamo scesi dal nono all’11esimo posto tra i primi 20 esportatori globali di merci, rappresentando il 2,8% dei loro volumi. Abbiamo venduto di meno all’Europa (-1,2%), ma di più ai Paesi extra UE (+1,3%), abbiamo anche importato meno dall’Europa (-5,5%), ma essa rimane pur sempre il nostro primo mercato di sbocco, che assorbe ancora oltre il 50% delle esportazioni italiane. Gli USA, invece, sono il nostro terzo partner commerciale, dove arriva il 6.9% delle nostre esportazioni che rappresentano l’1,6% di tutte le merci che entrano negli USA.

L’agricoltura e gli alimentari ancora fanno gola

Le esportazioni italiane di prodotti dell’agricoltura, della silvicoltura e della pesca, però, costituiscono un’eccezione, valgono 5 miliardi 973 milioni di euro, +2,6% rispetto al 2013, le importazioni valgono 12 miliardi 652 milioni di euro, +2,8% rispetto all’anno precedente. In questo settore gli esportatori censiti dall’ICE sono davvero pochi: 6.870. I nostri prodotti vengono in larga parte esportati verso l’UE (per 4 miliardi 730 milioni di euro) ed importati dall’Ue (per 7 miliardi 284 milioni di euro). Solo 82 milioni di euro in valore raggiungono tutta l’America settentrionale, ma ben 800 milioni ce ne arrivano di lì in importazioni.

Nel settore manifatturiero, se le esportazioni di prodotti alimentari, di bevande e tabacco valgono 27 miliardi 468 milioni di euro, con un 5,6% in più rispetto al 2012, le importazioni valgono 28 miliardi 037 milioni, con un +3,6% in più rispetto al 2012. Qui il numero degli esportatori sale a 17.672 e anche in questo caso il mercato principale per le esportazioni è l’UE, che assorbe prodotti per 17 miliardi 522 milioni di euro (+4,5%), ma è anche la nostra fonte principale d’importazioni per 21 miliardi 900 milioni (+2,6%). In tutta l’America settentrionale esportiamo merci per 3 miliardi 430 milioni di dollari (+4,5%) e ne importiamo per 314 milioni (+29% rispetto al 2009).

…ma l’Italia è sempre più dipendente dalle importazioni estere

L’Italia, insomma, importa materia agricola prima per esportare, in misura crescente, prodotti del Made in Italy alimentari: nel 2013, dice Coldiretti, abbiamo importato ben 105 milioni di chili di concentrato di pomodoro dei quali 58 milioni dagli USA e 29 milioni dalla Cina, altro che sugo all’italiana… E’ così che contribuisce in maniera costante al Pil, nonostante la crisi e il fatto che gli italiani spendano sempre meno. Invece di capire chi consuma meno e perché, lavorando a monte per qualificare la domanda e il mercato interno con politiche ridistributive e orientate alla buona occupazione e alla buona vita, si indica alle aziende italiane l’uscita di sicurezza nelle filiere internazionali. Il risultato però di questa politica è sostanzialmente distorsivo. La bilancia agroalimentare italiana, infatti, nel 2013, ha registrato un passivo di oltre 7 miliardi di euro: 33,4 miliardi di euro di esportazioni, a fronte di oltre 41 miliardi di euro di importazioni.

…e il suo primo mercato è l’Europa

Ma c’è di più: la stragrande maggioranza degli operatori lavora nei mercati territoriali, nazionali, al massimo europei. Per l’industria alimentare nazionale, l’export rappresenta circa il 16% del fatturato (stima riferita al 2011, ultimo dato disponibile per il confronto del fatturato nei paesi dell’UE), rispetto al 23% dell’UE27, e dunque il rischio che l’invasione del mercato europeo e nazionale di prodotti Usa a basso costo ne spazzi via il grosso o ne snaturi la vocazione territoriale senza che essa possa cogliere alcuna opportunità oltreoceano, in un Paese come il nostro dove il pubblico non investe e il privato piccolo e medio non trova credito, è più che tangibile. I rischi per l’occupazione nel settore dovrebbero far pensare: ci sono oltre un milione e trecentomila occupati nel settore agroalimentare (5,6% del totale occupati), di cui circa 900 mila nel settore agricolo e 456 mila nell’industria di trasformazione, senza considerare quelli coinvolti nella ristorazione e nei bar comunque connessi in maniera stretta al mondo alimentare.

I guadagni sono bassi e i salari a rischio

A fare l’agricoltore o il piccolo trasformatore in queste filiere non c’è molto da guadagnare, quindi basta poco per chiudere. Nel caso dei prodotti freschi, per ogni 100 euro spesi dal consumatore finale (considerando i soli consumi domestici), circa 7 sono indirizzati a prodotti agricoli importati e poco meno di 22 euro rimangono come valore aggiunto ai produttori agricoli (erano quasi 22 e mezzo nel 2008), mentre quasi 36 euro diventano valore aggiunto dei settori del trasporto e del commercio e 17 euro il valore aggiunto degli altri attori della filiera. In questo quadro, ogni posto di lavoro messo a repentaglio dal TTIP, o una riduzione di mercato minacciata, potrebbe essere la mazzata finale per l’intero sistema. Uno degli studi d’impatto più positivi rispetto agli effetti del TTIP, quello condotto dalla società Cepr, ci dice che in virtù del TTIP dovrà cambiare lavoro tra lo 0,2% e lo 0,5% della forza lavoro europea. Cioè, dando circa a 228 milioni di persone la forza lavoro Ue, parliamo di almeno 460mila persone. Secondo le stime dell’Università Usa Tufts si arriva a contarne oltre 600mila in meno.

Il mercato agroalimentare europeo verrà saturato di prodotti Usa

Anche rispetto agli scambi, c’è molta chiarezza da fare. Il concetto da introdurre nella nostra riflessione è quello chiamato “trade diversion”: quanto, cioè, del commercio intra-europeo “cambierebbe strada” verso Oltreoceano riducendo drasticamente le quote di interscambio tra i confini europei. L’analisi della Bertelsmann Foundation prevede che l’Italia, ad esempio, registrerebbe una riduzione delle proprie esportazioni verso la Germania del 29,45%, e altrettanta perdita registrerebbe la Germania nelle esportazioni dirette verso l’Italia. Si prevede, inoltre, una riduzione consistente delle importazioni europee dalla sponda sud del Mediterraneo, dove pure tanta nostra agricoltura ha investito in questi anni, ma un aumento delle esportazioni. L’Italia, d’altro canto, aumenterebbe di oltre il 90% le sue esportazioni negli USA, ma aumenterebbe anche di cifra pari le importazioni da quel Paese, sempre in uno scenario di abbattimento delle misure non tariffarie. Incremento che, con una riduzione delle sole tariffe, si attesterebbe a un aumento delle nostre esportazioni verso gli USA dell’1%, e un aumento delle loro verso di noi dell’1,71% .

Mentre il mandato è archiviato, il TTIP è un accordo “vivente”…

Il mandato negoziale con cui il Consiglio e il Parlamento europei hanno affidato il negoziato alla Commissione il 17 giugno del 2013, in effetti, sembrerebbero rassicurarci. Ci spiega che UE e USA “sono impegnati nello sviluppo sostenibile, nelle sue dimensioni sociali, economiche e ambientali, compreso lo sviluppo economico, la piena e produttiva occupazione e il lavoro dignitoso, come la protezione e difesa dell’ambiente e delle risorse ambientali”. Non esclude, però, in nessuna sua parte esplicitamente tema alcuno che non sia quello degli audiovisivi (esplicitamente citato come non liberalizzabile per volontà della Francia), e tantomeno argomenti cari agli USA come OGM, carne agli ormoni, pollo clorinato, livelli di pesticidi e delizie affini. Il mandato, dobbiamo sottolineare, descrive il quadro negoziale attuale:, non il suo svolgimento, che già ad oggi contraddice la cornice di principi da esso disegnata; ne’ i suoi esiti, ne’ le sue specifiche declinazioni in documenti e dispositivi specifici, visto che l’accordo è vivente, animato, mentre il mandato è bello che archiviato.

L’Europa protegge le sue frontiere alimentari più degli Usa

Anche con l’abolizione delle sole protezioni commerciali sul sistema alimentare, è l’Europa a perderci potenzialmente di più: le tariffe medie europee sul cibo trasformato sono al 14,6%, almeno 4 volte più alte di quelle USA, al momento al 3,3%. Per l’agricoltura, i prodotti della pesca e delle foreste, le tariffe medie sono circa al 3,7% senza sostanziali differenze tra le due coste atlantiche. Per le barriere non tariffarie, invece, confermati per il cibo trasformato e le bevande i livelli più alti, con un 56,8% e un 73,3% tariffa equivalente per le merci provenienti, rispettivamente da USA e UE. Con la liberalizzazione delle sole tariffe, secondo il Cepr le esportazioni dell’agricoltura di base europea potrebbe crescere entro il 2027 del 17,53%, con un guadagno di 2,024 milioni di euro, e il cibo trasformato dell’8,15%, con un guadagno però da 2,402 milioni di euro in più (p. 38).Quelle Usa, a pari condizioni, crescerebbero del 19,33%, con un guadagno presunto di 978 milioni di euro, mentre il cibo processato crescerebbe del 39,82%, con un guadagno a stelle e strisce di 2,173 milioni di euro .

…e quindi ha molto più da perdere eliminandole

Quando, però, è il Parlamento europeo a fare i conti, cominciando a introdurre qualche elemento di Trade diversion nei suoi calcoli, si scopre che un 25% di riduzione delle barriere non tariffarie transfrontaliere porterebbe ad un aumento dei flussi commerciali reciproci di circa il 40%. Questo per il settore agroalimentare si tradurrebbe in un 60% di aumento delle esportazioni europee verso gli USA, ma ad un aumento entro il 2025 del 120% delle importazioni europee di settore dagli Usa (p. 20). Le esportazioni europee che aumenterebbero di più sarebbero di Carne rossa (+404%), carni bianche (289%), zucchero (+297%), farina bianca (289%), e latte (+240%). Le importazioni Usa aumenterebbero di più sostanzialmente negli stessi settori, ma con proporzioni ancora più importanti, e solo con una riduzione delle barriere non tariffarie. Il valore aggiunto dei prodotti, però, quello che abbiamo inseguito qualche paragrafo fa lungo le filiere agricole italiane, scenderebbe dello -0,5% in Ue e crescerebbe dello 0,4% negli Usa. In Italia, addirittura cadrebbe del -0,1 nel caso di rimozione delle sole barriere tariffarie, e del -0,4% in presenza di “armonizzazione” ampia: a testimoniare come a guadagnare di questa apertura di mercato non sarebbero certo i produttori né i primi trasformatori. Anzi: l’Italia, con un 13,6% raggiunto nell’interscambio di frutta e vegetali, perderebbe un 2,1% di valore aggiunto (p.42). Perderemmo un secco -3,9% di valore aggiunto anche nelle fibre vegetali e un 2,4 negli oli vegetali (p.44). Alcuni settori subirebbero una competizione diretta fortissima, se il mercato diventasse unico: vacche da latte, etanolo, pollo e cereali, tra cui mais e farine di bassa qualità. A guadagnare esportazioni sarebbe solo il settore del latte, e forse vino e alcolici tra i trasformati.

La protezione della salute, prima di tutto

Lasciando da parte almeno per un attimo, però, il mero conto della serva, dobbiamo ammettere che USA e UE divergono profondamente nel funzionamento stesso dell’elaborazione e dell’applicazione delle misure Sanitarie e fitosanitarie (SPS) entro i propri confini. L’Ue applica il principio “dall’azienda agricola alla forchetta” (farm to fork), dove ogni passaggio della produzione è, almeno sulla carta, monitorato e tracciabile. Il sistema Usa, invece, verifica solo la sicurezza del prodotto finale. In assenza di una chiara prova, tutta a carico dell’eventuale vittima di alterazione o sofisticazione, di collegamento evidente tra un’intossicazione e un alimento, l’alimento resta in commercio. La posta in gioco a livello di sicurezza alimentare, in realtà, è altissima. Negli Stati Uniti, ha recentemente segnalato l’ONG Grain citando i calcoli pubblici del Centers for Disease Control and Prevention, negli Stati Uniti ogni anno almeno 48 milioni di persone si ammalano per aver mangiato cibo contaminato (in pratica un cittadino ogni 6) e 3mila muoiono per le conseguenze. In Europa nel 2011, ultimo dato disponibile, sono state 70mila le persone che si sono ammalate per la stessa causa, e 93 sono morte. Dimensioni talmente lontane che non permettono di essere sottovalutate (p. 22).

Regole “a prova di scienza”…

Il Mandato spiega anche che le misure dovranno essere “basate sulla scienza e sugli standard internazionali di previsione del rischio”, e che le Parti stesse avranno il diritto di gestire prontamente rischi eventuali per umani, animali, piante o la salute pubblica, e solo in questi casi, anche quando non c’è rilevante evidenza scientifica. Ma è proprio sul ruolo delle evidenze scientifiche, e del rischio acclarato per piante, umani e animali in base al quale reagire, che si gioca da anni la lotta commerciale tra Usa e Ue intorno a temi come gli OGM, il pollo clorinato, la carne agli ormoni, i livelli dannosi di antibiotici, o di pesticidi ammessi nei mangimi o nell’alimentazione umana. E quello che spaventa di più è che a p. 13 del mandato si chiarisce che” l’Accordo sarà vincolante per tutte le autorità regolatorie e regolamentari attive ad oggi, e su tutte le altre autorità competenti di entrambe le parti”. Sostituendosi, così alle autorità nazionali il Regulatory Cooperation Council, sulla base di quanto stabilito sin dall’inizio dall’US-EU High Level working group report che ha dato l’abbrivio al negoziato, ha l’unico obiettivo “di ridurre gli avversi impatti sul commercio e gli investimenti … (dei) costi non necessari e dai ritardi amministrativi derivati dai regolamenti”, da raggiungere con una progressiva “compatibilità regolatoria”. Obiettivo segnalato come prioritario anche dalle lobbies industriali, e ripreso pari pari nel testo del Mandato.

La verità sugli Ogm

Rispetto agli OGM, tema tra i più sensibili da ricondurre al TTIP, una delle battaglie di civiltà che rischia di essere archiviata con discrezione per via regolamentale, è quella del fronte, imponente anche negli USA negli ultimi anni, che si oppone alla circolazione di prodotti a base di OGM senza specifica etichettatura (p. 26). All’inizio del 2014, infatti, quando lo Stato del Vermont ha approvato per primo la richiesta di etichettatura dei cibi OGM, la Grocery Manufacturers Association gli ha subito fatto causa. Per assicurarsi comunque una via d’uscita i produttori USA stanno chiedendo di inserire nel trattato TTIP una norma specifica contro le etichette “parlanti”, nel nome della già tanto esplorata “armonizzazione regolatoria”. Ma il concetto scientifico di pericolosità è variabile nel tempo, basti pensare al tabacco, e talvolta le aziende nascondono i risultati degli studi interni quando emergono pericolosità dei loro prodotti, per cui il relativo accertamento potrebbe verificarsi con anni di ritardo. Significativo che una delle richieste dell’industria riguarda proprio il rafforzamento delle regole sulla riservatezza delle informazioni aziendali, al fine di evitare fuoriuscite di informazioni chiave. Inoltre c’è una forte opposizione alle iniziative dell’EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare) per facilitare l’accesso del pubblico ai dati provenienti da studi di sicurezza effettuati dall’industria.

Doc, Dop e Indicazioni geografiche

Se pensiamo, poi, all’italiana, di sacrificare un po’ della nostra sicurezza per esportare un po’ di cibi a denominazione controllata al di là dell’Oceano, e diventare così più ricchi e più felici, abbiamo fatto male i nostri conti. La loro fortuna, anche in Paesi molto lontani da quelli che li originano, fa si che le registrazioni in Europa, tra DOP e IGP, abbiano raggiunto il considerevole numero di 1.268. E’ una partita da non sottovalutare, quella del segmento Dop-Igp il cui fatturato vale circa 6,7 miliardi di euro, ovvero il 17,6 per cento dell’intero fatturato del settore agroalimentare italiano (bevande escluse). Una prima sperimentazione di quel “mutuo riconoscimento” tra prodotti autenticamente IG e i marchi registrati (quasi sempre da oriundi), “IG sounding” che vorrebbe essere introdotto nel TTIP, è stata introdotta nell’Accordo sul Commercio tra Canada ed Europa (o CETA). Ma i chiaroscuri di questa scelta sono ben presto evidenti anche agli occhi meno esperti (p.30). Chi in Europa, vedendosi esportare un prosciutto italian style a prezzo più che accessibile, visto che il trattato prevede una reciprocità negli scambi, starà a fare il difficile e rifiuterà sdegnato il prosciutto canadese accaparrandosi, al contrario, la nostrana unicità costi quel che costi? Come reagiranno quelle imprese di “prosciutto semplice” italiane, che vendono al massimo in Europa, quando vedranno calare gli ordini nei propri mercati di riferimento perché ci è sbarcato, con migliore capacità organizzativa e di prezzo, il Parma Ham? Quando questa cosa si ripeterà anche per molti dei formaggi che tradizionalmente popolano la nostra tavola?

Ricordiamoci poi che formaggi e carni conservate valgono più dei quattro quinti dell’intero segmento, in particolare solo quattro prodotti – Parmigiano reggiano, Grana padano, prosciutto di Parma e prosciutto San Daniele – rappresentano circa i due terzi dell’intero fatturato DOP-IGP nazionale. Siamo disposti, per il successo di soli quattro prodotti, a barattare tutto il sistema di sicurezza alimentare che ad oggi ci tutela bene, stando ai risultati? L’Ismea ci dice, per di più, che per competere l’Italia non riesce a fare sistema dal campo al container. In parole povere, trasformatori e distributori hanno a che fare con una struttura piccola e media che spolpano all’osso, ma anche così facendo, non volendo ridurre i propri profitti, non riescono a raggiungere i principali competitori e quindi comprano materia prima, tutt’altro che Made in Italy, sempre più lontano. Se immaginiamo aumenti nei volumi di importazioni in Europa dagli USA, del calibro di quelli ipotizzati dalla Bertelsmann Foundation, cioè intorno al 90%, tra concorrenza diretta e indiretta, non solo rischia di mortificare alcune filiere nazionali che avrebbero potenzialità di sviluppo, ma minaccia la cancellazione dell’agricoltura di base media in gran parte del continente.

Invece di dar manforte alla pressioni corporative dirette ad espandere l’invasione dei cibi spazzatura, I nostri Governi dovrebbero trovare modi sempre nuovi di rafforzare le produzioni agricole ed alimentari locali e regionali, alimentando la diversificazione produttiva e la coesione sociale tra cittadini produttori e consumatori e sostenendo le forme più sane e “verdi” di agricoltura contadina.

Per questo il TTIP va fermato, e subito.

 

Lascia un commento

Cittadini in MoVimento